Diario fotografico accidentale

Il mio primo viaggio in Giappone nel 2016 si può dire che sia stata una inaspettata coincidenza. Insieme a Giulio Napolitano andavamo a presentare, presso l'Istituto Italiano di Cultura, un progetto editoriale sull'Iran che avevamo curato come editori. Quando sono arrivato a Tokyo non avrei mai immaginato quanto quel viaggio avrebbe inciso su di me.
Del Giappone sapevo poco o niente, ero cresciuto con i cartoni animati alla TV dei super eroi robot come Jeeg Robot, del mitico lottatore di wrestling Tiger Mask o di Mimì Ayuhara giocatrice di pallavolo, o ancora di Tsubasa Ozora, un ragazzino che sognava di diventare un calciatore professionista. Avevo ricordi nitidi di quelle atmosfere di sottofondo, quella sorta di ordine contestuale che poi ho ritrovato. Mi piaceva molto quella rappresentazione animata della società giapponese.

Questo e poco altro era il mio bagaglio personale di conoscenza. Durante la prima visita in Giappone, ricorreva anche il decimo anniversario del mio matrimonio, un'occasione per respirare un po' di aria nuova insieme a mia moglie e mia figlia.
Il Giappone ha radicalmente cambiato il mio modo di pensare la fotografia,
l'approccio visivo al mondo che mi circonda, aprendomi a una comprensione più profonda della narrazione visiva, ad un linguaggio più intimo e consapevole.
Per una vita ho viaggiato fotografando temi e situazioni specifiche, dedicando lungo tempo alla ricerca, ai contatti e alla pianificazione, con la necessità di andare in fondo alle cose.
Quale è altrimenti il ruolo di un fotoreporter?

Questo tipo di approccio mi ha sempre tenuto ancorato alla necessità di avere un progetto ben sviluppato, all'utilizzo di un certo tipo di attrezzatura, a vestire i panni di una figura specifica, ad un ruolo che mi proiettasse nelle dinamiche del racconto con un punto di vista ed una presenza ben precisi. Nell'ottobre del 2016 in Giappone per me è cambiato tutto.
E' successo perché ho lasciato a casa la mia attrezzatura fotografica e ho portato con me solo un iPhone.
Questa scelta, anche un po' inconsapevole, ha modificato ogni cosa, non tanto dal punto di vista tecnico, quanto nell'approccio psicologico-visivo. Ero finalmente uscito dal ruolo e dai panni del fotografo, pur continuando ad esserlo, per vestire quelli del viaggiatore, dell'osservatore, del marito, del padre, dell'uomo comune. Molte di queste foto le ho scattate tenendo sulle spalle mia figlia di 5 anni. Volevo svestirmi dei panni di qualsiasi ruolo. Nessuna priorità, nessuna necessità, nessun obiettivo prestabilito. Solo andare, esserci, percepire, aprirmi, abbandonarmi, senza sovrastrutture o condizionamenti.

Da un punto di vista concettuale, per me il fotografo non è tanto colui che si pone in un ruolo specifico, piuttosto colui che si pone in una condizione ideale. Le storie, in ogni momento ed in ogni luogo, sono intorno a noi, aspettano solo di essere raccontate.
Lo sguardo privilegiato sulla realtà che ci circonda non è quello di chi crea distanza o diversità (attraverso scelte mirate) ma quello dell'uomo comune che osserva da dentro, insieme agli altri, come uno tra tanti.
L'uomo comune ricopre una posizione di privilegio solo se è in grado di cogliere e di raccogliere ciò che gli sta intorno. Altrimenti rimane ancorato alla sua condizione originaria di "uomo comune senza una visione".





Le immagini che ho raccolto non raccontano dunque il Giappone, non sono un reportage né un archivio di memorie ordinate.
Sono piuttosto frammenti di incontri, di esperienze, riflessi di un’intimità corrisposta tra me e il Giappone,
tratti comuni, atmosfere interiori, territori dell'anima in condivisione. Il signor Tanaka che, ogni mattina, sale sullo stesso treno per visitare il caffè del figlio, un’abitudine che ripete da anni con la stessa dedizione, senza mollare mai. Una ragazzina su uno skateboard a Sugamo, il quartiere dei vecchi, un'immagine sulla coesistenza pacifica tra livelli temporali diversi. Il lavoratore che, a fine giornata, trova un momento di tregua in un parcheggio silenzioso, riflettendo su un giorno che assomiglia a tanti altri.
Queste fotografie sono una collezione di spazi di esistenza e co-esistenza
che, anche solo per un momento, hanno risuonato dentro e fuori di me, hanno trovato appigli e corrispondenze, come segnali di riconoscimento nella condivisione della condizione dell'animo umano. Non occorreva quindi un progetto strutturato per raccontare tutto questo, ma solo lasciarsi andare.







Ho condiviso due viaggi (2016, 2019) con Giulio Napolitano, amico e fotografo, compagno di fotografia. Lui ed io siamo nati ad un giorno di distanza, stesso mese, stesso segno zodiacale, ma molto diversi, seppure con numerosi punti di contatto, e questo libro ne è la libera espressione.
Ho scelto il bianco e nero per un più intimo senso di appartenenza, in quel momento della mia vita e in quel luogo. Nella mia eterna ricerca fotografica sugli stati dell'anima, volevo scattare immagini più introspettive, esistenziali. Ho cercato di catturare il respiro dei luoghi attraverso spazi vuoti, geometrie e silenzi, per me densi di significato.


















